Luca Genovese è Co-Founder e Managing Director di Cross Hub. Svolge il ruolo di Temporary Manager presso aziende appartenenti a diversi settori ed è un Innovation Manager riconosciuto dal Ministero dello Sviluppo Economico.
È anche Coordinatore Scientifico e docente per diversi master e corsi di Marketing Management, Comunicazione, Digital Marketing ed Event Management.
Collabora con diverse Università e Business School nazionali in attività didattiche e di ricerca su tematiche di marketing ed innovazione.
Fa parte del Coordinamento Scientifico della Commissione “Finanza Straordinaria, Venture Capital e Private Equity” dell’Ordine dei Commercialisti di Napoli ed è Consigliere Direttivo Nazionale e Rappresentante Campania presso Manageritalia Executive Professional.
Mi ha concesso un’interessante chiacchierata, se volete parlare con lui anche voi potete trovarlo su LinkedIn.
A che punto del tuo viaggio digitale sei?
Se è vero, come sosteneva Marcel Proust, che “il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”, ciascuno di noi, me compreso, non può che ritenersi in costante cammino nel proprio percorso di crescita alla scoperta delle innumerevoli opportunità che il digitale ci riserva.
Nel mio personale viaggio di conoscenza “digitale”, non mi sono mai fermato a fare un bilancio di quanto appreso ma, piuttosto, ho sempre cercato di analizzare le continue evoluzioni delle tecnologie, e dei comportamenti di fruizione delle stesse, provando ad “allargare” la visuale a punti di osservazione sempre differenti e a lavorare sullo sviluppo di un corretto mindset. Una vision che consentisse di poter cogliere le nuove sfide della digital trasformation che gran parte del tessuto imprenditoriale del nostro Paese sarà chiamato ad affrontare nel corso dei prossimi anni.
Cosa ti ha portato fin qui?
È un percorso lungo ed articolato iniziato oltre vent’anni fa: dopo una laurea in Economia e Commercio ad indirizzo Manageriale conseguita a pieni voti presso l’Università Federico II di Napoli, ho avuto l’opportunità di intraprendere una rapida carriera nel mondo marketing e del digitale, inizialmente come dipendente, poi come dirigente di alcune società e, a partire dal 2016, come Co-founder di Cross Hub, società di consulenza direzionale e temporary management, costituita insieme ad altri ex manager d’azienda e di cui sono attualmente Managing Director.
Nel corso di questi anni, complice anche la mia innata passione per le attività di ricerca e formazione che ho portato avanti parallelamente con diverse università, centri di ricerca e business school, ho avuto il privilegio di poter osservare l’evoluzione del “digitale” approfondendone le relative dimensioni sociali, tecnologiche, organizzative e manageriali, e di misurarmi sul campo nelle diverse sfide che ne hanno contraddistinto le varie fasi evolutive dagli anni 2000 ad oggi.
È vero che molti anni sono trascorsi dall’avvento delle prime tecnologie digitali ma è ancora più vero che, nonostante l’ormai elevata pervasività delle stesse nella nostra quotidianità, gli anni a venire saranno sempre più ricchi di opportunità per chi è in grado di coglierle. D’altronde, come sosteneva Abramo Lincoln, “il miglior modo di predire il futuro è inventarlo”.
Qual è la cosa che ti piace del tuo lavoro che ti fa sopportare quella che proprio vorresti non esistesse?
Senz’altro la varietà dei contesti organizzativi nei quali mi trovo ad operare, l’opportunità di lavorare in team multidisciplinari in grado di favorire una crescita professionale continua e la costante ricerca di nuove sfide. Tutti elementi in grado di assicurare un sistematica uscita dalla cosiddetta “confort zone” a beneficio della “growth zone”.
Guardando, invece, agli aspetti più problematici della mia attività ovvero a quelli che proprio “vorrei non esistessero”, devo dire che cerco di ispirami allo scrittore e politico inglese Tommaso Moro: cerco di cambiare le sole cose che sono in grado di modificare, di accettare quelle che non posso cambiare ma soprattutto di avere la saggezza di distinguere le une dalle altre.
Qual è il cambio di mindset che ti ha salvato o ti avrebbe salvato dal commettere errori?
Il principale cambio di mindset è stato, senz’altro, il passaggio da dirigente ad imprenditore nel settore dei servizi di affiancamento manageriale avvenuto nel 2016 con la nascita di Cross Hub.
Per quanto oggi continui ad assumere incarichi da Manager all’interno di diverse organizzazioni aziendali, tale passaggio mi ha permesso di uscire dal modello mono-committente tipico della dirigenza tradizionale, i cui percorsi di carriera sono fortemente condizionati dall’evoluzione dei rapporti fiduciari con la proprietà, ancor più se guardiamo alle caratteristiche del sistema imprenditoriale del nostro Paese fondato prevalentemente da PMI. Mi sono avvicinato ad una nuova professione, quella del “manager a tempo”, o meglio conosciuto con il termine anglosassone di Interim & Fractional Manager, che nel corso degli ultimi anni ha registrato un vero e proprio boom di richieste.
Oggi, a distanza di oltre 5 anni, ritengo che tale scelta, seppur complicata a suo tempo, si sia rivelata assolutamente vincente, sia in considerazione del significativo sviluppo del settore dei servizi di affiancamento manageriale ma soprattutto alla luce delle rilevanti opportunità di crescita del bagaglio di competenze, expertise e relazioni che questa nuova professione è in grado di assicurare.
Quanto vale la pena rischiare? Raccontami di quando hai presentato qualcosa di cui un po’ ti vergognavi perché non era ancora perfetto.
Ogni decisione che prendiamo richiede sempre una buona dose di rischio, ed ogni rischio che riteniamo di poterci assumere deve sempre essere opportunamente calcolato affinché possa essere affrontato al meglio. D’altronde, lo stesso Peter Drucker, uno dei padri fondatori degli studi di management, sosteneva come “dietro ogni impresa di successo c’è sempre qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa”.
A tal riguardo devo dire che nella mia attività non c’è spazio per la “vergogna”, soprattutto quando si è consapevoli di non aver raggiunto ancora la perfezione. C’è chi sostiene, infatti, che “l’ottimo è nemico del buono” e la ricerca spasmodica della perfezione, in effetti, rischia di poter compromettere quanto di buono si è fatto fino ad un determinato momento.
È la lezione che diverse startup hanno ormai imparato da tempo: “partire leggeri” e adottare approcci lean basati sulla costante sperimentazione e validazione delle proprie ipotesi. In questo senso la “vergogna” non ha senso di esistere soprattutto quando si è innamorati del proprio lavoro e ci si impegna costantemente per raggiungere i risultati prefissati.
Qual è stato il tuo momento BsoD?
Risalgono ormai a molti anni fa, quando la mancata esperienza professionale non mi consentiva di vedere le cose da prospettive differenti e comprendere che ogni momento di crescita passa sempre attraverso una “panic zone”. Ce ne sono stati diversi ma ognuno di questi ha contribuito a rafforzare le mie capacità di reazione.
Quanto è difficile trovare un CTO in Italia e quali qualità deve avere per lavorare con te. Su quale altra professione digitale pensi non ci sia abbastanza informazione e formazione?
Se guardiamo al semplice inquadramento professionale, probabilmente ce ne sono abbastanza. Digitando, per esempio, su Linkedin escono centinaia di pagine profilo con tale inquadramento indipendentemente dalla reale expertise.
La professione del CTO è alquanto complessa in quanto complesso è il mondo in cui opera e la velocità con il quale lo stesso continuamente si evolve e si trasforma. Se devo individuare una qualità su tutte direi, senz’altro, la capacità di apprendere e riuscire a stare costantemente al passo con i cambiamenti.
Un’altra professione sulla cui importanza, invece, rilevo una non sempre adeguata consapevolezza, soprattutto da parte delle PMI, è quella dell’Innovation Manager ovvero del manager deputato alla promozione, attivazione e facilitazione dei processi di innovazione tecnologica ed organizzativa all’interno dei contesti aziendali.
In considerazione della rilevanza attribuita a tale figura professionale ai fini dello sviluppo competitivo delle imprese del nostro Paese, a partire dal 2019 il MISE ha messo in campo una apposita misura a fondo perduto, denominata “Voucher Innovation Manager” finalizzata proprio a supportare l’ingresso in azienda di un manager specializzato nei processi di innovazione attraverso uno stanziamento di 96 mln € nell’ultimo biennio.
Nel corso delle prossime settimane si prevede una nuova riapertura dei termini di presentazione delle domande di accesso al voucher da parte delle imprese: un’occasione unica per accelerare i processi di innovazione all’interno delle organizzazioni aziendali, soprattutto alla luce dei notevoli cambiamenti generati dalla recente pandemia.
Investiresti più su una start up cammello (con solide basi di partenza) o su un unicorno (alta valutazione del potenziale)?
Nel mondo delle startup si è sempre rincorso il mito dell’unicorno: founders, business angel, venture capital, private equity, sono da sempre alla continua ricerca di quelle pochissime realtà in grado di scalare velocemente e ripagare con multipli significativi anche gli investimenti fatti su altre realtà meno performanti.
Da qualche tempo, complice anche la pandemia, comincia ad emergere con sempre maggior forza l’importanza dei valori della sostenibilità intesa nelle sue dimensioni economiche, sociali ed ambientali.
In questo senso le nuove realtà imprenditoriali, etichettate con il termine di “cammello” sembrano essere maggiormente in grado di assicurare un processo di crescita sostenibile nel rispetto degli ecosistemi all’interno dei quali operano.
Personalmente, ritengo che, quando si ha la fortuna di riuscire a scalare i diversi gradini della piramide di Maslow, arrivando a raggiungere in parte i propri obiettivi di auto-realizzazione personale e professionale, si ha il dovere di contribuire, coerentemente con le proprie possibilità, a migliorare il contesto in cui si vive. In tal senso, investire nelle cosiddette start up “cammello”, laddove focalizzate su problematiche significative, come per esempio quelle tracciate dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, può rappresentare una opportunità, lontana da logiche puramente speculative, per sostenere progetti imprenditoriali meritevoli e in grado di migliorare la qualità della vita.